Affetto e Disprezzo

Questa me l’ha raccontata un amico che di mestiere fa il formatore, gira un po’ tutta l’Italia per proporre corsi per insegnanti, comunità (più o meno di ispirazione cristiana), ditte, aziende eccetera, muovendosi con destrezza tra il pedagogico, lo psicologico, il linguaggio digitale.

Gli è capitato un paio di anni fa, quando non si sapeva ancora nulla del Covid, di accompagnare una formazione residenziale piuttosto lunga, dalla sera del giovedì a quella della domenica. Il gruppo formato da una trentina di persone era ospite di un albergo di lusso che volentieri aveva riservato loro un’intera ala, visto che si era in bassa stagione. Il mio amico – chiamiamolo Matteo – era partito molto prevenuto nei confronti dei partecipanti. Il suo collega Stefano, che aveva tenuto un corso analogo l’anno prima, gli aveva parlato malissimo del clima, dei soggetti in questione, delle dinamiche di cui era stato testimone: salvava solo il panorama e il menu raffinato dell’albergo.

Matteo comincia il corso il giovedì sera, è teso, un po’ impacciato, qualcuno dei partecipanti arriverà in ritardo, qualcun altro ha disertato. Non va molto meglio il venerdì mattina, e Matteo avverte la tentazione immediata di giudicare i partecipanti, pone lo sguardo sulle loro effettive carenze, sulle dinamiche rigide che non fatica a riscontrare nei rapporti interpersonali, sull’attenzione e la partecipazione ai lavori di gruppo o assembleari nei quali non percepisce una grande intelligenza e un decoroso sforzo di volontà per accogliere la proposta formativa. Arriva al pomeriggio di venerdì col fiato corto, Desidera soltanto di finire presto il weekend, che si prospetta – purtroppo – ancora molto lungo, due giorni interi da passare fino alla sera della domenica. Poi qualcosa cambia. È lui stesso a dirmelo in questo modo. “La sera del venerdì, prima di cena, avevo un momento libero a disposizione. Ho provato a rivedere la giornata, e mi sono accorto di una cosa importante. Le mie presentazioni erano state fatte bene, preparate con cura, il gruppo era oggettivamente scadente sotto tutti i punti di vista, ma il problema non era quello. Era che io non li guardavo con affetto sufficiente, forse troppo prevenuto dalle confidenze di Stefano, che l’aveva incontrato l’anno prima. In ogni cosa ero tentato di giudicare, perfino di disprezzare le persone che avevo davanti, e mi veniva tanto più facile quanto più i loro limiti apparivano con evidenza disarmante. Ho provato a cambiare approccio, a guardare con affetto queste persone, a non posare troppo l’occhio sulle loro lacune. L’affetto ha sostituito il disprezzo, la comprensione ha preso il posto del giudizio, e nei due giorni successivi tutto si è ribaltato, e quando ci siamo salutati la sera della domenica portavamo nel cuore un grande senso di reciproca riconoscenza”.

Le letture della liturgia di oggi mettono in scena un fariseo che ha l’intima presunzione di essere giusto e disprezza il suo prossimo e la comunità di Roma alla quale Paolo raccomanda di non disprezzare il fratello, di non giudicarlo.

E quasi come rovescio della medaglia, ci regala le parole commoventi che Isaia pone sulle labbra e nel cuore di Dio: “Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto”. Noi che ascoltiamo con fiducia la Parola del Signore ci troviamo – come il mio amico Matteo – di fronte a un bivio. Possiamo continuare anche a fare le cose perbene nella nostra comunità, preparare e condurre tutto nel migliore dei modi, ma se nello spirito prevale il disprezzo, la disistima per il fratello, niente andrà per il verso giusto. Se vincono i toni del giudizio, dell’arroganza, della presunzione tutti i nostri sforzi resteranno inutili. Se proviamo a guarire il disprezzo con l’affetto tutto cambia, tutto si trasforma.

L’affetto di Dio – suggerisce Isaia – è più forte dei terremoti. A noi basta raccoglierne poche briciole: sono più che sufficienti per mutare il lamento in danza, per sciogliere lo sguardo arcigno e duro in un sorriso di benevolenza e di pace.