Ottant’anni

Di sicuro tanti di voi conoscono il racconto rabbinico che parla dell’età di Mosè. Dice più o meno così: “La vita di Mosè fu di centoventi anni: quaranta in Egitto prima di fuggire, quaranta nel deserto fino all’incontro con Dio, quaranta per condurre il popolo fino alla Terra Promessa”. Non occorre essere dei fenomeni in matematica per capire che l’incontro tra Dio e Mosè in fondo al deserto avviene nell’ottantesimo anno di vita dell’amico del Signore. Si può dire di tutto di lui, tranne che sia giovane. Non è mai troppo tardi, ci viene da pensare, e d’altra parte un Dio per il quale “mille anni sono come un giorno, e un giorno come mille anni” (cfr 2Pt 3, 8) non ha certo problemi di tempo, per Lui non esiste il “fuori tempo massimo”.
Dio trova sempre il momento giusto, anche quando all’uomo tutto appare finito e perduto, e questo ci fa tirare il fiato, ci dà respiro. Potremmo pregare così: “Signore, io sono sempre in ritardo, ma Tu arrivi in tempo, io mi perdo gli appuntamenti importanti, ma Tu sei sempre puntuale. Grazie perché ci sei, perché mi cerchi, mi aspetti”.
Ma un altro pensiero mi raggiunge sempre più spesso quando rileggo la pagina dell’Esodo che oggi ascoltiamo nella prima lettura. L’ottantenne Mosè che si imbatte nello straordinario spettacolo del roveto ardente ha passato metà della sua vita nel deserto, nel silenzio, in compagnia di un po’ di capre, tra incontri e parole rare, attraverso giornate di infinita solitudine.
Questo silenzio l’ha cambiato, l’ha scavato, l’ha trasformato. Ci sono voluti quarant’anni di pochissime parole e di molti pensieri nei quali i ricordi hanno trovato posto e pace, gli errori commessi sono stati riletti, gli entusiasmi giovanili presuntuosi e inopportuni si sono placati.
Il deserto ha purificato Mosè, l’ha levigato, l’ha asciugato, e adesso è pronto. Ha tenuto l’essenziale, non ha smarrito il fuoco della curiosità, il desiderio di conoscere e di sapere.
Quando vede da lontano ardere il roveto si mette in cammino, cambia strada, si vuole avvicinare per guardare meglio. E poi si ferma a distanza, con timore e rispetto, come si conviene davanti al Divino. Molto tempo prima gli era sembrato di avere chiara davanti a sé la propria missione, gli era parso di essere preparato, forte, pieno di energia e di potere. Non era forse uno dei personaggi più eminenti di tutto l’Egitto? Eppure aveva capito molto poco di sé, e quasi nulla di Dio. Dio non l’ha scelto nel momento migliore della sua vita, non l’ha voluto come suo amico nel momento del massimo splendore
umano della sua parabola di forza e di potenza. Lo sceglie, lo vuole adesso: vecchio, debole, impacciato, ma purificato da un lungo cammino di nascondimento, di delusioni e di fallimenti. Dopo quarant’anni di deserto, Mosè finalmente è arrivato al punto di partenza.
Eccolo lì, allora, davanti al roveto che arde e non si consuma, un prodigio, un miracolo mai visto. Mi viene da pensare che Mosè rilegge se stesso, la propria vita, in quel cespuglio di spine. È come se pensasse così: “Chi sono io, Mosè, chi mai è l’uomo su questa terra? Io sono come un grumo di rami secchi, una cosa da niente in fondo a una strada di sassi e di sabbia che non percorre nessuno. Io sono un dettaglio, un nulla, qualcosa che si vede senza ricordare, che si dimentica in fretta, poco utile, non bella da guardare. Ma ecco, può capitare anche a me di essere preso e conquistato dal fuoco dell’Eterno, un fuoco che mi fa bruciare ma non mi distrugge, che mi fa ardere ma non mi annienta. E allora io, povero cespuglio secco, divento un prodigio, posso ricominciare, posso ripartire”.
A volte, guardando alla nostra vita, ci viene da ripetere le sue stesse parole.