Il tempo, il luogo, le persone

Il brano della Pentecoste si apre con una notazione di tempo: “Mentre stava compiendosi  il giorno”. È la sera, sta scendendo il buio e gli apostoli sono ancora lì. Forse non hanno la sensazione di una giornata buona, o di avere vissuto  qualcosa di bello. Nulla è accaduto. Ma il meglio deve  ancora venire. È consolante contemplare lo Spirito che  scende a sera, quando forse le speranze cominciano a  declinare col calare del sole, quando stanno per subentrare l’oscurità e la paura. Ci fa bene pensare ad uno Spirito che ci  viene a trovare a sera quasi per riscattare una giornata di  delusioni, di speranze fallite. Lo Spirito è un amico che arriva  a sera, quando la solitudine si fa sentire con più forza,  quando un’ombra di depressione e di tristezza si allunga,  portandoci a pensare che la nostra vita se ne sta andando, e  che non abbiamo combinato nulla di buono. Ha il colore del  fuoco, come i tramonti più belli, e ci insegna a non  disperare, a non credere che ormai è troppo tardi, che abbiamo operato ed atteso invano.  Ci dà la forza per affrontare la notte. Il testo di Atti, dopo averci segnalato il tempo dell’evento di Pentecoste ce ne rivela anche  il luogo. “Lo stesso luogo” è il cenacolo, la stanza al piano superiore dove si raduna la  prima comunità apostolica. È un luogo che rivela come i discepoli abbiano saputo porre  una distanza tra loro e la strada. Hanno cercato una solitudine che non dice soltanto la  loro paura, ma esprime positivamente il desiderio di creare uno spazio di silenzio e di  attesa. La stanza al piano superiore segnala la necessità di guardare le cose dall’alto per  comprenderle meglio, la fatica di salire per poi ridiscendere a terra, tra la gente. Ci fa bene  contemplare lo Spirito che ci raggiunge “al piano di sopra”, quando troviamo il coraggio di  placare gli affanni della vita e del cuore e accettiamo la fatica di “tirarci fuori”, di non  metterci al centro dei problemi come se tutto dipendesse da noi, di non porci sotto  l’occhio di tutti, colmi forse della nostra presunzione e del nostro orgoglio. C’è un amore  della solitudine e della quiete che non rappresenta in alcun modo una resa nei confronti  dei problemi e della vita, o una fuga disordinata dopo una guerra perduta; piuttosto dice  con forza il desiderio di essere colmati di Spirito santo, e la fiducia che è la sua potenza e  non la nostra a cambiare e trasformare le cose, a convertire i cuori, a suscitare il bene, a  compiere ogni opera buona. In questo luogo i discepoli si ritrovano “tutti insieme”. Il testo di Atti non descrive il dono dello Spirito come premio riservato ai più meritevoli. È regalo per tutti, fatto a gente che si porta addosso le proprie molte povertà, ma che si dimostra capace di stare insieme. È  dono per una comunità, e non è legato a una conquista o a un atto eroico di qualche  singolo che trascina con sé ogni cosa e ogni persona nel trionfo. Quella degli apostoli era  una comunità di poveri, segnata dal dramma della croce. La notizia della resurrezione si  faceva strada molto lentamente nei cuori di ciascuno di loro. C’erano ancora problemi e  distanze, ma erano tutti nello stesso luogo, dove lodavano e glorificavano il Signore. Si  trovavano insieme a pregare: questa era la loro forza; questa preghiera comune ha  preparato il dono dello Spirito. La grazia di radunarsi della Pentecoste ha qualcosa da dire alla nostra solitudine, al nostro pensarci indispensabili, padroni delle cose, delle situazioni, “uomini soli al comando”  incapaci di ammettere i propri desideri nascosti di tenerezza e di compagnia, di  riconoscere che non sono solo gli altri ad avere bisogno di noi, ma anche noi di loro. Una  chiesa che nasce dalla Pentecoste è una chiesa di poveri che si cercano e si mettono  insieme, non di ricchi che bastano a se stessi e si dimenticano di tutti gli altri.