Che musica maestro

Forse i più vecchi ricordano questi modi di dire, per i più giovani occorre tradurre.
Quando la mamma diceva al bambino “Adesso te le suono” non c’era da stare allegri. Il riferimento non era certo a una ninnananna con violini e flauti, tutt’altro.
La signora in questione che prometteva di eseguire una buona canzone era armata di ciabatte o pantofole, oppure a mani nude, e il destinatario della musica non era il cuoricino del piccolo capriccioso, ma una parte meno nobile, che ben si prestava ad essere percossa senza danni eccessivi ma con una buona dose di sofferenza.
Oppure – variazione sul tema – capitava anni fa di ascoltare l’espressione soddisfatta di un tizio qualsiasi che dopo un chiarimento con il vicino di casa o un collega di lavoro riassumeva agli amici l’esito del colloquio con una frase soltanto: “Gliene ho cantate quattro”.
Non è esattamente quello che intende dire san Paolo quando raccomanda ai cristiani di Colosse di “istruirsi e ammonirsi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori”.
Insomma: ci si può rimproverare cantando, ci suggerisce l’apostolo, con le belle maniere, senza abbaiare come mastini inferociti o gridare come scimpanzè.
Paolo sembra volerci dire che un po’ di grazia e di leggerezza non guastano quando ci si deve comunicare qualcosa di poco gradevole, che si può essere persino grati ad un fratello perché ha esercitato nei nostri confronti la difficile arte della correzione, che addirittura nei richiami più severi può nascondersi una certa armonia. “A vicenda”, non manca di sottolineare l’apostolo, perché anche chi corregge ha bisogno di essere corretto a sua volta, e i più bravi a redarguire il prossimo sono coloro che hanno imparato a conoscere i propri difetti, e hanno inghiottito l’amara medicina del rimprovero.
Ma forse Paolo vuole dirci qualcosa di più. Forse sta davvero parlando del potere magico di un bel canto, di una buona musica, e prima ancora che ci arrivassero medici e psicologi aveva intuito che cantare insieme, o lasciarsi ispirare da un suono, una nota, una melodia può guarire gli spiriti malati. Non è forse vero – ci dice la Bibbia – che il
giovane Davide fu chiamato alla corte del re Saul per guarire con i suoi salmi, le sue musiche e il suono della cetra le paranoie del sovrano lunatico e ombroso, i suoi attacchi di ossessione e di tristezza?
“Che musica, maestro!”; mi pare fosse il titolo di una canzone degli anni ’60 o ’70 (stiamo parlando dello scorso millennio), sigla di qualche varietà televisivo o di competizioni canore da seguire sullo schermo ancora in bianco e nero. C’è una parola bella che definisce questa musica che guarisce, che cura, che corregge, che placa. È la
parola “accordo”: riguarda la composizione delle note, ma anche la capacità di fare pace, il desiderio di un suono che accarezza orecchie e cuore e insieme lo sforzo di uscire dalle divisioni e dai rancori. Il suo contrario – non a caso – è “disaccordo”, termine che non indica soltanto un suono stridente che offende l’udito, ma soprattutto le divergenze, le
mancate corrispondenze che possono sfociare in vere e proprie liti, in rancori senza fine.
“Cantaci sopra”, ci veniva suggerito una volta, e a pensarci bene non era l’indicazione per praticare un menefreghismo senza costrutto, l’indifferenza, si sa, non fa bene a nessuno; magari, chi lo sa, voleva dire: “Prova a guarire col canto”. San Paolo fa riferimento agli inni, ai cantici spirituali, ai salmi letti e cantati con spirito di riconoscenza e gratitudine. Quando celebro l’eucaristia, mi viene spesso da pensare che perfino i cori stonati, gli inni che si trascinano tra fili di raucedine e note calanti, le parole che si perdono e si confondono non solo raggiungono il cuore di Dio, ma guariscono lo spirito di chi li esegue. Non importa se non siamo alla Scala; a chi crede arriva spesso la voglia di cantare, e trova il modo e il tempo per farlo. Ci si vuol bene, ci si fa del bene anche così, inseguendo gli accordi di un canto.